8 febbraio 2017

Storia di una dattilografa

Questo fine settimana, approfittando di due voli e delle conseguenti attese in aeroporto, ho letto un romanzo molto bello, The Typewriter’s Tale di Michiel Heyns (non mi risulta esista una edizione italiana). Il libro è stato pubblicato nel 2005 ma è ambientato nei primi anni del Novecento e sfrutta uno stratagemma narrativo che a me è molto caro (a patto che la scrittura sia di alto livello): l’adozione di personaggi e di circostanze storiche accertate per la creazione di una storia di finzione. 
La protagonista della storia è Frieda Wroth, una giovane dattilografa assunta da Henry James. La ragazza vive a Rye (Sussex), a poca distanza da Lamb House, residenza dello scrittore, dove si reca tutti i giorni per battere a macchina, sotto dettatura, le pagine della prosa narrativa e saggistica di James e, occasionalmente, le sue lettere. La figura di Frieda è ispirata a Theodora Bosanquet, la vera segretaria del romanziere, che gli rimase accanto negli ultimi anni della sua vita e che fu in seguito suffragista, nonché autrice di Henry James at Work; ma le esperienze del personaggio di Heyns sono pura, e bella, opera di narrativa. 
A casa di Henry James, nel romanzo come nella realtà, si alternano ospiti come il fratello, la nipote e artisti vari, tra i quali i carissimi amici Edith Wharton e Morton Fullerton, che di Wharton fu l’amante.
Lamb House, Rye (Foto di Mara Barbuni)
La qualità di questo libro – oltre all’intrigante spunto narrativo della ricerca di un fascio di lettere nascoste, che richiama subito alla mente Il carteggio Aspern – sta nell’uso del linguaggio, che ricalca le preziose involuzioni della lingua di Henry James; nella rievocazione dell’ambiente della casa dello scrittore; nella rappresentazione amorevole delle funzioni quasi “magiche” della macchina da scrivere Remington; e infine in un elegante velo di ironia steso sull’intero racconto, in cui tuttavia brillano la profondità dei personaggi, la delicatezza della trattazione delle loro mancanze, che non trascende mai nel ridicolo, e il loro rapporto con la Vita e con l’Arte. Il messaggio finale del libro sta nelle parole che Henry James consegnò ai posteri sulle pagine di Gli ambasciatori: «Live all you can; it’s a mistake not to» («Vivi tutto ciò che puoi; non farlo è un errore»).