22 ottobre 2014

Ho sposato il mondo

Tanto tempo fa, guardando un documentario dedicato a Maria Callas, ho sentito nominare per la prima volta Elsa Maxwell. Si parlava di questa giornalista come di una terribile pettegola, da parte della quale ci si aspettava un’aspra recensione a seguito di una performance discutibile della divina. Le immagini in bianco e nero mostravano anche un suo fugace passaggio nel foyer del teatro: una donna non più giovane, tozza, avvolta in una opulenta pelliccia. Dalla visione di quel documentario sono sempre stata incuriosita dal personaggio di Elsa Maxwell e quando ho scoperto che la casa editrice Elliot aveva pubblicato la sua autobiografia non ho potuto che desiderare di leggerla. 
Il libro si chiama Ho sposato il mondo, e racconta l’incredibile vicenda di un’americana piuttosto bruttina e non particolarmente benestante che, benedetta da una fortuna indescrivibile, si impone sulla scena sociale della prima metà del Novecento fino a diventare un simbolo del lusso sfrenato di cui godevano la nobiltà, la plutocrazia e il mondo dello spettacolo. Il racconto, in prima persona, ci fa entrare in un universo rutilante nel quale, come per magia, Elsa ha l’occasione di incontrare (e non solo, ma anche di discutere, e spesso di stringere forti amicizie con) la maggior parte degli uomini e delle donne più interessanti del suo tempo: solo per citarne alcuni, Winston Churchill, l’Aga Khan, Greta Garbo, Rita Hayworth, la Duchessa di Windsor (al secolo Wally Simpson, amante e poi moglie del Re che abdicò), Marlene Dietrich, Charlie Chaplin, Albert Einstein, Noel Coward, Christian Dior, Aristotele Onassis, e decine e decine di altre personalità che hanno scritto la storia del secolo lungo. Le scenografie sulle quali si stagliano i drammi borghesi recitati da tutti loro sono quelle — da sogno — delle grandi navi che attraversavano l’Atlantico per scaricare centinaia di americani annoiati sulle eleganti coste inglesi, i palazzi di Montecarlo, le spiagge fascinose del Lido di Venezia. 

Il resoconto delle avventure di Elsa è così denso di eventi e di grandi nomi che in certi momenti si inizia persino a dubitare della sua veridicità. Di certo la personalità dell’autrice era complessa e fitta di chiaroscuri, sebbene le sue memorie si sforzino di rappresentare solo la faccia luminosa della medaglia della sua vita. Se si cerca (e non è facile) di non restare abbagliati dai paraphernalia con cui l’io narrante cerca costantemente di confonderci — come le descrizioni delle sue memorabili feste, delle sue epiche cacce al tesoro, dei regali iperbolici che riceveva da stilisti e politicanti — si riesce a individuare una donna investita dalla solitudine. L’esistenza di Elsa Maxwell attraversò fasi di tremenda povertà, fu testimone di due guerre mondiali, e soprattutto non conobbe mai l’amore. Nella sua autobiografia ella scherza sulla propria bruttezza (è tuttora conosciuta con l’appellativo di “rospo”) e se ne rallegra, perché questa “qualità” le ha consentito di entrare nell’alta società senza compromettere i suoi rapporti con gli uomini e senza suscitare le gelosie delle loro mogli. Ma la mancanza perpetua di un compagno o di una compagna (è opinione molto diffusa che a un certo punto Elsa si innamorò perdutamente di Maria Callas, e che le sue insistenti avance furono respinte con aspra freddezza) non riesce a passare in secondo piano, e forse plasma anche il tono stesso di queste memorie, che tradiscono uno sforzo sovrumano di esposizione compulsiva di se stessa e dei propri successi. Se Maria Callas aveva la voce, Greta Garbo il fascino imperituro, Albert Einstein il genio e Winston Churchill il talento politico, Elsa Maxwell aveva i suoi “contatti”. E cercò di farne una ragione di vita.